Manifesto

LA TERRA SOTTO I PIEDI

Alla fine del XIX secolo gli Zulu, popolo guerriero dell’Africa del sud, riuscirono a respingere l’attacco dell’esercito coloniale britannico, armati di corte lance, le zagaglie. Da quel momento il loro nome, che in lingua bantu significa “popolo del cielo”, entrò nel linguaggio europeo come sinonimo di rozzo, stupido e incivile. Una rideterminazione semantica con cui il conquistatore bianco dissimulava tutto il risentimento della sconfitta, lasciando intendere che chi difende la propria terra e i suoi modi di vivere dalla colonizzazione sarebbe un inferiore che si aggrappa al passato perché non comprende la grandezza del Progresso. Se le colonie che si studiano a scuola non ci sono più, il processo di colonizzazione non si è di certo esaurito con la loro formale indipendenza ma ha continuato a espandersi trovando a tutte le latitudini nuovi sud e nuovi zulù da civilizzare. La nuova frontiera da conquistare può essere ovunque, l’importante è che ci sia nuovo valore da estrarre. I piani di sviluppo imposti dalle varie classi dirigenti ridisegnano i territori riprogrammando la vita di chi ci vive, dalla foresta amazzonica al sud della Germania, dagli atolli del Pacifico fino in Terra d’Otranto. In questo piccolo pezzo di sud del mondo, nella seconda metà del XX secolo, ad essere estratti sono stati proprio i terroni, troppo umili, troppo ignoranti, ancora troppo ribelli. La grande emigrazione del secondo dopoguerra, pianificata per disinnescare il rischio insurrezionale delle masse contadine e nel contempo per fornire manodopera a basso costo all’industria, ha avuto l’effetto di spopolare questi luoghi e offrirli a una nuova penetrazione coloniale. Furono milioni gli zulù sradicati e “gentilmente” invitati al trasferimento verso nord dove avrebbero sperimentato l’urbanizzazione e il relativo sfruttamento nelle grandi fabbriche e nelle miniere di mezza Europa, non senza organizzarsi anche lì in classe pericolosa. Quanto a chi rimase poté comunque respirare aria di progresso grazie ai giganteschi poli industriali dell’Italsider e dell’Enichem e ai nuovi ritrovati chimici della così detta rivoluzione verde, sentendosi parte del grande miracolo economico. L’ideologia di un progresso materiale infinito è penetrata nelle menti con la stessa potenza devastante delle ruspe che sradicarono migliaia di ulivi per far posto alla grande acciaieria di Taranto. L’eco del famoso “boom” non si è ancora smorzato così come non ha smesso di vibrare la sua epocale onda d’urto che anche oggi, qui in “finis terrae”, si espande aggiornando la mappa delle grandi e piccole opere per togliere sempre più la terra sotto i piedi ai suoi barbari zulù. Ma la colonizzazione bisogna saperla riconoscere. È necessario che l’orizzonte di riferimento non sia totalmente contenuto dentro una casa e che il “fuori” non sia percepito come uno sfondo in cui vanno in scena le nostre ripetitive azioni quotidiane. Chi ha dimenticato la terra vendendosi l’anima non capisce più nemmeno quanto spazio perde giorno per giorno, lasciando che le cose semplicemente accadano ben al di sopra della sua testa, in cieli iperuranici ove dimorano impenetrabili divinità cibernetiche. Chi ha i piedi ben piantati sulla terra sente ancora quelle radici divelte come ferite dolenti e sanguinanti, comprende lo stato di minaccia in cui vive e, nella necessità istintiva della difesa, non può arretrare, distrarsi, restare silente, sebbene conscio dell’inferiorità dei propri mezzi davanti alle molteplici forme di dominio imposte dagli Stati e dai grandi complessi industriali. L’apocalisse non incombe, è già avvenuta, avviene ogni giorno. Non è una possibilità da scongiurare ma una costante aggressione da respingere con tutta la forza che gli espropriati possono ancora esprimere. Ogni giorno la catastrofe è concreta e muta il luogo in cui viviamo, la percezione che ne abbiamo, senza chiederci il permesso. Come vittime di un maleficio cediamo alla sua presunta ineluttabilità ma il futuro non è scritto. Nel mondo distrutto e distruttivo un umano medio può avvertire occasionalmente, quando il rumore del consueto si dirada per un attimo, lo scricchiolio del pavimento su cui cammina. Spesso è solo una sensazione indefinita perché troppi sono i vuoti che ci ha consegnato il vivere civile per comprendere lo spaesamento in cui viviamo. La conoscenza del “prima” è relegata a una caricatura folkloristica che ha disattivato la memoria, le parole vengono rubate e sostituite dall’ambiguo e seducente cicaleccio di altri artifici coloniali. Il brusio è costante ma i cinque sensi non mentono se ci soffermiamo sulla nuda essenza, se rimettiamo i piedi sulla terra. Per difendere la terra bisogna sentirla propria: non sentirsene padroni ma parte organica. Niente a che vedere con mitologiche radici e appartenenze identitarie. La terra sotto ai piedi per riconquistare le nostre anime incatenate, ripulire i nostri arnesi polverosi e riscoprirne il valore e l’uso, incamminarci su quei sentieri abbandonati dal momento in cui le macchine ci hanno offerto i loro allettanti servigi, rifiutare di essere misurati in valuta e in tempo. Riprenderci ciò che è nostro, a cominciare dal tempo e dallo spazio. Per saper riconoscere i nuovi colonizzatori e i nuovi zulù disposti a riprendere in mano la zagaglia e organizzarsi per respingere l’esercito di sua maestà.

Editoriale del numero 0